BREVE STORIA TRISTE DI UNA GIUNTA DEL E NEL TERRORE
Entrare a Palazzo Senatorio, sede della Giunta capitolina, è
come tentare di entrare a Fort Knox. Altro che casa di vetro.
Dopo un quinquennio trascorso lì dentro, posso dire di
conoscere un gran numero di persone, con molte delle quali ho ancora oggi
ottimi rapporti. Tanto che, nel desiderio di salutarne qualcuna in particolare,
ho provato il brivido di entrare nella casa di vetro.
Non l’avessi mai fatto!
I poveri guardaportone, imbarazzatissimi, che mi facevano
intendere che non potevano autorizzarmi, anche se sapevano che stavo andando a
salutare un’amica, più che una collega.
Ometto i nomi – per non creare problemi a nessuno, dato che
c’è sempre qualcuno più in alto cui dover rendere conto – ma chi guardava la
porta, un tempo era socievole, non un cerbero. Perché sopra i guardaportone c’era
un cerbero (spero suo malgrado) che, con fare onestamente sgarbato nei
confronti dei suoi sottoposti, li minacciava non si sa di quali terribili
ritorsioni se, facendomi entrare, fosse successo qualcosa. Cosa, poi, non è
dato saperlo. Magari pensava che, che so, avrei potuto tendere un “agguato”
mediatico al Sindaco. Ma la delicatezza della situazione mi aveva imposto l’accortezza
di chiedere l’accesso al Palazzo dopo che il Sindaco era uscito.
Telefonate, conciliaboli, spiacevolezze: 15 minuti in cui mi
sono sentito non un cittadino, né un “privilegiatissimo” giornalista, ma un
galeotto, un criminale, un malintenzionato.
Alla fine, per bontà divina, vengo autorizzato a salire.
Uso, al cerbero, la cortesia di chiedergli se voleva accompagnarmi su, a
salutare la collega. Almeno per toglierlo dall’imbarazzo di dovermi imporre lui
la sua scorta ma sollecitandola io stesso. Lo prendo, metaforicamente, sotto
braccio e saliamo al terzo piano, dove, fra una chiacchiera e l’altra, lascio
che mi conduca fino alla porta della collega. Sciocco io a pensare che fosse
sufficiente: cerbero chiede alla collega, con un fare decisamente inquisitorio,
in sostanza di confermare che effettivamente io ero atteso da lei. Dopo di che,
mi adopera la sublime sofisticatezza di togliersi dalle palle almeno per i 10
minuti che ho impiegato per abbracciare una o due persone con cui ho diviso un
quinquennio della mia vita.
E questo conduce alla seconda parte: con Veltroni e Alemanno
là dentro entravano cani e porci. Avevamo giornalisti parcheggiati quasi sulla porta
dello studio del Sindaco. I colleghi entravano anche per scrivere i pezzi,
indipendentemente dalle conferenze stampa e dagli incontri istituzionali, poiché
la sala stampa era a loro disposizione con pc e fax. Potevano accedere al bar
interno per mangiare un boccone al volo e non stavano ore sotto il sole o la
pioggia. Ed erano invadenti, petulanti e pure un po’ rompipalle. Ma c’era rispetto.
Con Marino, i cordoni degli ingressi si sono un po’
ristretti. Un po’ di regole e regolette in più, ma, tutto sommato, alla fine,
si entrava. E già era in voga lo slogan della casa di vetro.
Ora il vetro invece di essere cristallino è opacizzato,
smerigliato, oscurato. La “casa di vetro dei romani” di trasparente non ha più nulla.
Perché c’è il terrore. Delle domande.
Spiace dirlo e vederlo tutti i giorni. Non si possono fare
domande. A nessuno, a partire dal Sindaco. Le risposte, quando ci sono, sono
una litania di banalità, mai una notizia, mai un commento. Dischi rotti che ciancicano
a pappardella frasi predisposte da altri.
Perché la comunicazione la fanno su facebook: post,
telecamerina con qualche effetto di montaggio, e la comunicazione è
unidirezionale. Tu, povero utente cretino, bevi dalla mia fonte della verità. E
non azzardarti a fare domande.
Perché, come si è visto nelle rare occasioni in cui lo
sventurato di turno rispose, alla seconda domanda che non preveda una risposta
preconfezionata altrove, scatta il panico. Ed emerge tutta la consistenza e la
sostanza di cui sono fatti i sogni. O gli incubi.
e speriamo che l'incubo finisca presto
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