sabato 28 febbraio 2015

PALLOTTA PREME PER LO STADIO


Arrivo intorno alle cinque del pomeriggio, ingresso in sordina dalla porta laterale, e due ore di colloquio con il sindaco Marino. Il presidente della Roma, James Pallotta e il direttore generale della squadra, Mauro Baldissoni, hanno discusso col Primo Cittadino ovviamente della questione stadio di Tor di Valle. Trascorsi oltre due mesi dall’approvazione in Aula Giulio Cesare della delibera che ha sancito l’interesse pubblico alla realizzazione del futuro impianto della As Roma, si attende ora che Parnasi rediga i progetti definitivi che dovranno essere, poi, depositati in Comune e, dal Campidoglio, “girati” alla Regione.

Come al solito, da parte di Marino si dà fiato alle trombe dell’ottimismo (“in poche settimane il progetto in Regione, grande certezza di poter arrivare entro il 2015 a iniziare la costruzione; Pallotta ci ha fatto vedere il numero di imprese coinvolte in diverse parti del mondo”), mentre dalla Regione si ostenta un pacato e tranquillo rifiuto di esporsi prima di vedere le carte. 

Anche perché, oltre la questione dei tipi di progetti da presentare (per il Gruppo Parnasi solo quelli delle opere pubbliche e dello Stadio senza la parte commerciale, per il Comune, invece, devono essere consegnati i definitivi da gara europea di tutte le opere), al momento continuano a non risultare ancora in azione le trivelle e i geologi per i sondaggi geologici sull’intera area, atto propedeutico a qualunque progettazione definitiva. Pallotta non perde l'ottimismo: "Stiamo rispettando i tempi previsti e non vedo nessun problem".
Piccola coda di polemica: Alessandro Onorato (consigliere Lista Marchini), visto che Pallotta e Baldissoni sono arrivati su un’auto del Sindaco, accusa: “le macchine di scorta di Marino fanno da taxi mentre Roma è bloccata”. Replica del Campidoglio: “non era una macchina di scorta ma di servizio e si è trattato di un gesto di mera cortesia” 

lunedì 16 febbraio 2015

GRAZIE, IMBECILLI

C'è il mare, il rumore dell'acqua che si infrange sugli scogli e se ne potrebbe quasi avvertire l'odore, quel profumo salmastro che rende una spiaggia dolce anche d'inverno. Su questa sabbia dove è facile immaginare ombrelloni, asciugamani colorati, bambini che giocano allegri, passa un corteo di morte. Uno a uno, accoppiati, come si faceva all'asilo. Solo che uno dei due è vestito di arancione, lo sguardo in basso, le mani legate dietro la schiena. L'altro è vestito di nero, incappucciato, la testa in alto e conduce l'altro per la collottola: non si odono urla, non ci sono pianti, lacrime, strepiti. C'è solo un silenzio irreale, rotto dal rumore del mare.
E poi c'è lui, l'unico vestito con dei colori addosso, fossero pure quelli di una mimetica color sabbia. Impugna un coltellaccio che alza e brandisce con piglio deciso. Parla un inglese un po' accentato da arabo, con quella erre arrotata e quei suoi gutturali che si associano alla lingua araba. 
Lo stillicidio prosegue: non riesci ad incrociare gli sguardi degli agnelli. La telecamera li riprende da vicino solo di tre quarti, mai dritti in viso. Questo onore è riservato al boia capo, quello vestito in mimetica. Ma lui porta gli occhiali da sole. Non ci è dato di vedere se ha gli occhi azzurri o neri, se dentro quegli occhi c'è un briciolo di umanità o sono ciechi come quelli di uno squalo, coperti da una cataratta di odio. Parla in arabo, adesso. E non si capisce cosa dica. Ma non occorre comprendere il significato delle parole. La mano è già sporca di sangue. Il coltello anche. 

L'ultima scena è questa risacca. Non è più azzurra, non c'è più schiuma bianca. C'è solo sangue. Un mare di sangue.

Non si può non provare orrore, un fremito alla narici, una contrazione allo stomaco. 

Ma, dopo l'orrore, deve riattivarsi il cervello.

Monaco 1938 non ha insegnato davvero nulla. Si pensa sempre che si possa scendere a patti con il demonio. Si rimanda fino all'ultimo il confronto, quando esso è non solo davvero l'extrema ratio ma è anche molto più costoso, umanamente in termini di sangue da versare, economicamente in termini di soldi da spendere e costi da sostenere.

Abbiamo sbagliato tutto, noi occidentali. E ci sono degli imbecilli che vanno ringraziati.
I primi sono quei coglioni, tutti anabolizzanti e zero cervello, che stanno al di là dell'Atlantico, sotto la bandiera Stelle e Strisce. 
Questi idioti non hanno mai capito la politica, specie quella europea. Con quella loro aria da manzi ingrassati a steroidi hanno sempre pensato alla politica in termini di potenza militare e basta. E poi, dopo essere giunti al rango di prima potenza mondiale, nicchiano sempre quando c'è da trarre le conseguenze del proprio ruolo. A meno che non ci sia il petrolio in ballo.
Insieme a loro, ringraziamo quei cuginetti londinesi, quelli che hanno dimenticato cosa significhi essere una potenza imperiale, quali ruoli, compiti e responsabilità siano legate indissolubilmente alla politica estera.
Infine, i cugini d'oltralpe, quelli che hanno brigato più di tutti per eliminare i dittatori, come Gheddafi. E non per un senso di giustizia, non scherziamo. Ma per sedersi loro al tavolo della ciccia.
Grazie, imbecilli!

Tre Paesi, tre potenze, vent'anni di politiche sbagliate. Continuiamo a pensare che la "democrazia" assurta al ruolo mitico di panacea, sia il desiderio naturale di tutti i popoli. Con il pensiero positivo dell'evoluzione della storia, che va sempre verso il meglio, riteniamo che l'approdo naturale del mondo sia la nostra cultura.
Quale arroganza, quale ignoranza.

Abbiamo contribuito, noi italiani con il nostro pavido silenzio, a che venissero appoggiati i movimenti rivoluzionari. Abbiamo contribuito a che i leader cattivi di queste regioni - Gheddafi, Mubarak, Ben Alì - fossero rimossi con la forza. E con la forza ora dobbiamo confrontarci con questa realtà orribile: sono le nostre mani plaudenti quelle che vengono morse adesso. Abbiamo liberato la bestia, in nome della democrazia. Non comprendendo che la democrazia non è universalmente un valore. Dimenticando le differenze storiche, culturali, sociali, politiche fra noi e il percorso millenario che ha secolarizzato, cambiato, a volte annichilito la nostra società tradizionale, e società diverse, strutturate diversamente, con valori e ideali totalmente differenti dai nostri. 
Non abbiamo compreso queste diversità. E oggi ne paghiamo e ne pagheremo ancora di più lo scotto e il costo. In termini umani, materiali e di valori.

Dovremo scendere all'inferno e sperare di farvi ritorno, prima di considerare concluso questi periodo storico.
La verità è che abbiamo dimenticato la lezione di Machiavelli in favore di Pufendorf. 

E adesso il nemico è sulla nostra soglia. Forse è davvero il caso di porre fine a quei paraventi ideologici che ingessano e fermano ogni reazione. Forse è il caso di assumere delle responsabilità individuali e non di continuare a sperare nella bontà dell'uomo. Traduzione: smettiamo di aspettare gli altri, l'Onu. E iniziamo da soli. Ad esempio, con un cambiamento radicale delle regole di ingaggio della Marina Militare: armati e pronti, si trainano direttamente in Libia quelli che sono partiti. Sotto scorta armata, cosicché non venga in mente a qualche pisquano di minacciare i nostri soldati, i barconi non entrano più in Italia ma ritornano in Libia. Se necessario, li si lascia al limite delle acque territoriali libiche. E stop. E se qualcuno prova a superare lo sbarramento: si spara. 
Perché dietro quegli occhiali da sole non si vede nulla. E di sicuro non c'è bontà.

venerdì 13 febbraio 2015

LA ROMA E IL GIALLO DELLO STADIO


Sullo Stadio della Roma a Tor di Valle si va avanti, adagio, molto adagio. Dopo che, a ridosso di Natale, il Consiglio comunale ha dato il via libera alla prima fase, quella dell’interesse pubblico all’opera, i progettisti del Gruppo Parnasi - secondo quanto si apprende - si sono riuniti al termine delle festività natalizie e hanno iniziato a lavorare sui progetti definitivi.




L’iter, infatti, prevede che i proponenti, quindi il Gruppo Parnasi come “partner tecnico”, debbano presentare i progetti definitivi delle opere al Comune che, dopo un primo esame superficiale per verificare se essi rispondono alle prescrizioni contenute nella delibera di pubblico interesse, li depositerà in Regione. Avvenuto il deposito in Regione scatteranno i famosi sei mesi entro i quali dalla Pisana dovrà essere convocata la Conferenza di Servizi decisoria che darà il via libera definitivo al progetto. 



Da giorni, poi, si vocifera sulla possibilità che già per fine marzo il Gruppo Parnasi “chiuda” i definitivi. Ma, su questo punto, si apre un piccolo giallo: secondo alcuni dei progettisti del Gruppo, i definitivi che, secondo loro, dovrebbero essere depositati sarebbero solo quelli delle opere pubbliche (i ponti, le strade, i raccordi, la metropolitana e via dicendo) più quelli dello Stadio vero e proprio. A loro giudizio, questo sarebbe dovuto al fatto che le altre opere (sostanzialmente il business park) non rientrerebbero nel più ampio concetto di “pubblico” ma sarebbero da considerare “private”. 



In realtà, dal Campidoglio, lo stesso assessore all’Urbanistica, Caudo, è stato piuttosto chiaro: i progetti che il Comune si aspetta che verranno depositati dovranno essere i definitivi di ognuna delle opere che compongono l’intervento, quindi, sia i ponti o la metropolitana, che anche tutto il resto. E se per quelle opere considerate “di interesse pubblico” i definitivi dovranno scendere al massimo livello di dettaglio (in sostanza un progetto esecutivo), per quelle private, invece, i dettagli potranno anche arrivare in un secondo momento (la convenzione urbanistica avrà durata decennale) ma gli elaborati progettuali definitivi dovranno comunque essere presentati e, quindi, vagliati dai tecnici comunali e regionali.